Reginald Dwight, nome d’arte Elton Hercules John, è una rockstar multimilionaria nota al mondo intero. La sua vera vita, quella per cui tutti lo conosciamo davvero, tuttavia, può dirsi innescata da una seduta di alcolisti anonimi: è in questo contesto che John affronta gli arcani demoni dei giorni andati, consentendogli di ripercorrere singolarmente tutti gli step che l’hanno portato fino a quella condizione.
A valle del trionfo, un po’ inatteso, quantomeno nelle proporzioni, di ”Bohemian Rhapsody”, “Rocketman” aveva il compito di offrire tanto per sentirsi paragonato al medesimo. L’aspettativa era quindi alta così come lecito risultava, fin dal principio, ogni paragone. Il tutto, corroborato di certo dalla circostanza che il regista della biografia in musica e immagini di Elton John è Dexter Fletcher, ossia colui che ha ereditato ”Bohemian Rhapsody”, ormai privo di regista (a causa del licenziamento di Bryan Singer), per portarlo a termine.
Qui, Elton John, in sostanza si autoproduce, affidandosi a Fletcher, oltre che allo “sceneggiatore di fiducia” Lee Hall, che ha firmato l’emotivamente mirabolante ”Billy Elliot”.
Il sordido e costante confronto tra ”Bohemian” e ‘Rocketman’ ha influenzato le scelte di Fletcher, pur scegliendo un altro percorso per tratteggiare la vita di Dwight.
Anziché l’imitazione esasperata – degli attori e dei concerti – del film di Singer, ‘Rocketman’ usa le tormentate vicende di Elton John come parabola a metà tra il reale e il fantastico, quale allucinazione rivelatoria, invero tale da aprire uno spiraglio per comprendere la genesi di un talento come pochi.
Ad affliggere il film di Fletcher, come molti biopic prima di lui, è forse l’eccesso e quasi ossessivo ricorso all’esplicitazione massima dei dettagli, privando l’immaginazione di qualsiasi spazio auto-inventivo. L’infatuazione per il rock’n’roll non può quindi che manifestarsi attraverso un ciuffo di capelli impomatati, e la capacità di Elton di far librare corpi e pensieri è esemplificata da una scena in cui questo avviene letteralmente, e così via.
Tutto è ostentato più che semplicemente suggerito, come se fosse implicita la richiesta di questa dovizia di dettaglio da parte del pubblico o, peggio, l’incapacità di quest’ultimo di poter ricostruire le varie fasi senza un aiuto visuale. Su questo punto Fletcher dimostra una certa continuità rispetto a ”Bohemian Rhapsody” e a un’idea di film-evento che sa sempre più di messa in scena spettacolare e curata di quel che ci si attende di vedere realizzato su grande schermo, anziché la rivelazione di qualcosa di inatteso o di impredicibile.
Cinema che nasce per confermare ed esaltare, per soddisfare il desiderio inesauribile dei vari fan service. E che evita gli spigoli più difficili da gestire. Ma, a differenza che nel caso di Freddie Mercury, con Elton John coming out e omosessualità non sono certo sottaciuti; tuttavia, a prevalere è sempre la semplificazione delle scelte, dei traumi, o degli enfatici momenti rivelatori.
Il mistero di una “diversità” che, nel caso di Elton John, è plurima, non viene esplorato: Reginald Dwight non è solo gay in un mondo che celebra l’eterosessualità, è anche un bastian contrario impossibile da incasellare nei generi musicali in voga, quando comincia a emergere nel mondo della musica. Elton sceglie il rock’n’roll al posto della preparazione classica, il soft rock tinto di soul e gospel anziché le chitarre che dominano la sua epoca.
Di questa insofferenza alla normalizzazione, artistica e sessuale, restano qualche scena caratterizzata da superior pudicizia (con l’amato-odiato John Reid) e le crisi per eccesso di droga e alcool, ossia fra i più doverosi cliché più antico del biopic musicale, a cui “Rocketman” non fa nulla per sottrarsi.
Affrontati i demoni che era lecito rinvenire nel romanzo voluto da Elton John stesso, arriva inesorabile la roboante consacrazione del proprio riscatto: sulle note di I’m Still Standing, inno alla resilienza nonostante tutto e tutti, scorrono i celebrativi titoli di coda, che ci rammentano del felice prosieguo della vita di Elton John, in uno alla descrizione dettagliata delle sue meritorie attività filantropiche.
Beh, tutto è bene quel che finisce bene, come si voleva rappresentare ma non come si voleva audacemente immaginare.
Taron Egerton (il giovane rampollo agente segreto della Serie Kingsman con Colin Firth e Mark Strong) nei panni di Elton John? Un po’ come il cavolo a merenda. Ma, in fondo, quasi dell’attore che ne impersona le fattezze poco te ne importa. Perché Elton John è una Candle in the Wind che non si spegnerà mai.