In premessa, sono sicuro di poter fare un’affermazione: se mai questo film dovesse essere candidato a un premio Oscar, quello sarebbe al casting. Steve Coogan e John C. Reilly sono perfetti per rivestire i panni, rispettivamente, dei mitici Stan Laurel e Oliver Hardy. Eccezion fatta per qualche collosa (ma contenuta) appendice facciale, le loro espressioni sono davvero confacenti alla loro grandezza mimica.
Nel 1953, Stan e Oliver Hardy, 16 anni dopo il migliore momento della loro carriera hollywoodiana, partono per una tournée teatrale in Inghilterra. Nonostante il tempo che passa, milioni di persone li amano ancora tanto, al punto da ridere ancora solo sentirli nominare.
Tuttavia, nel frattempo, il mondo è un po’ cambiato. La televisione, con un’opera di progressivo movimento contro-culturale, insidia sempre più il teatro; poi, sempre in maggior numero, iniziano ad essere più attratti dal cinema. Vanno ancora in onda i loro capolavori del passato, ma aumentano i competitors, come “Gianni e Pinotto”, che sottraggono sempre più pubblico alle loro esibizioni in teatrini di second’ordine, a causa di un agente che pare mancare di coraggio e che ha perso un po’ di fiducia nella loro capacità di affascinare ancora il mondo intero.
Tuttavia, il fantastico duo sa ancora divertirsi e produrre spasso; Stan scrive sempre sceneggiature, anche durante le ore di riposo, e sottopone le sue idee a Oliver “Babe”; la tournée diventa quindi quasi un espediente per spendere del tempo insieme, fuori dal set, come mai avevano fatto nella precedente fase artistica, con un risultato non trascurabile. Impareranno a pesare la reale entità della loro amicizia, dura come pietra, pur a fronte di qualche passato malinteso, quando Oliver accettò di recitare con una specie di “clone” di Stan per continuare a guadagnare qualcosa, laddove l’originale, spesso intemperante verso il comune manager, aveva mostrato ben più di qualche intemperanza ed era stato licenziato.
Il film non gigioneggia più di tanto sui loro sketch, sulla loro capacità di arrotare le sillabe e ovalizzare le parole, tale da rendere comiche pure le parole più semplici e comuni, talvolta in un gioco di scambio posizione degli accenti (“Stùpidò!”) che ha fatto epoca. Tuttavia, quando la pellicola si sofferma su alcuni dei passi più celebri, i 2 attori sono a dir poco eccezionali, occorre dirlo. La grattata di testa di Stan dopo aver sollevato il cappello e il ghigno arrabbiato di Oliver sono da incorniciare e da far vedere e rivedere a tutti gli aspiranti attori. Il loro non è emulare, ma riprodurre, alla perfezione, quel che è unanimemente considerato un duo che ha del leggendario.
Steve Coogan nei panni di Laurel e John C. Reilly in quelli di Hardy riescono nell’impresa di far rivivere una delle coppie comiche più grandi della storia del cinema e della televisione, in un biopic che fa divertire, al contempo capace di riempire di nostalgia allo stesso tempo. Un tempo dove la smorfia aveva un suo senso, carica di quei contenuti che estrinsecati correttamente saprebbero dar luogo a intere e incalzanti dialoghi.
Il punto di partenza è il libro di A.J. Marriot, che “referta” in relazione al tour inglese dei due vecchi artisti; sul quale campeggia, come una clessidra girata al contrario e già ampiamente a metà, l’ombra della salute a dir poco cagionevole di Oliver. Allo stesso tempo, l’adattamento cinematografico del volume dà la possibilità di inquadrarli da un’altra prospettiva, non illuminata dai riflettori, fornendo una pacata disamina del loro quotidiano e della loro immensa passione per il mestiere.
“Stanlio & Ollio”, con fervida ritmica ed evidente competenza storica – la scena introduttiva, con la quale i nostri passano attraverso gli studios, parte allestiti e parte in allestimento, è splendida, vera ed emozionante -, racconta poi della reale sostanza di questo tipo di film, quelli comici: ovvero che, per dirla con Buster Keaton, il fatto che “realizzare film comici è un lavoro serio“.
Commovente il focus su Stan Laurel, mente creativa del duo, il quale produceva sempre possibili copioni da mettere in scena, oltre a coltivare l’illusione di un film, un “Robbin’ good“. Un film che, nelle sue intenzioni e per come se lo era immaginato, avrebbe senz’altro messo la salute dell’amico-compagno a dura prova. Tuttavia consapevole che lo avrebbe anche riempito di gioia.
All’opera dello scozzese Jon S. Baird riesce un pervicace lavoro sulla materia, ottenuto senza l’ausilio di alcun maquillage logistico sulla sceneggiatura, del resto anche corroborato dall’inserimento di una “selezione” delle loro migliori gag, riproducendo con candore stilistico e fedeltà storica anche di quelle storiche (quella della doppia porta in corrispondenza di una stazione ferroviaria è un vero e proprio cult, di quelle da porre ad esempio nelle scuole di recitazione), e una gamma di mimiche gestuali dei due che li hanno fatti grandi e, forse, irripetibili (vedasi il tie-twiddle di Ollio), in uno a qualche raffinatezza narrativa di assoluto valore.
Si ride e ci si commuove e ci si ritrova ad applaudire con ritrovato entusiasmo il ritorno di Stanlio e Ollio. I quali, da troppi anni e alquanto ingiustamente, ma purtroppo i tempi cambiano, non vengono nemmeno più trasmessi sul piccolo schermo.
Ma la classe è eterna. E questo film riesce a essere in grado di rispolverarne lo splendore.
Assolutamente da vedere, per chi ama il cinema fatto di stile ma senza essere “stiloso” e che pone l’accento su una di quelle cose che non conosce né tempo né spazio, né risente dell’estrazione culturale.
L’amicizia. Si, l’amicizia. Quella parola che sa accarezzarti l’anima, e che lega gli uomini molto al di là dei loro rapporti basati su risvolti venali ed opportunistici.
Perché l’amicizia, quella vera, come quella di Stan e Oliver non si vende e non si compra.
È un dono.
E la vera fortuna è, nell’ipotesi di disporre di un pacco degno, trovare chi vi appone il giusto fiocco