Ispirato a una storia vera, Kristoffer Nyholm – regista di molti episodi della serie ‘The Killing’ – riprende una vicenda accaduta a valle della costruzione del Faro, progettato da David Alan Stevenson. Una torre di 23 metri costruita per la Northern Lighthouse Board (NLB) tra il 1895 e il 1899, e che vide la prima accensione il 7 dicembre del 1899.
Un fatto di cronaca, divenuto in breve tempo leggenda, su tre uomini scomparsi nel nulla, senza lasciare una spiegazione né una traccia tangibile.
Arriviamo al 1900. James Ducat, Thomas Marshall e Donald MacArthur sono i tre custodi del faro di Eilean Mòr, ovvero una delle una delle Isole Flannan nelle Ebridi Esterne a largo della costa occidentale della Scozia.
Spinti da diverse motivazioni a svolgere un mestiere che li isola dal resto del mondo, ricevono rifornimenti a intervalli regolari grazie a barche che arrivano dal mare, vista la totale assenza di risorse di ogni tipo su quell’isola, circondata da scogliere altissime e che vengono aggirate grazie a un sistema di carrucole e binari ferroviari.
Un giorno, una barca ignota si schianta contro l’isola: sulle prime, pare che il marinaio che la conduceva sia morto, con in dote una cassa dal contenuto misterioso. Ma, in realtà, il marinaio non ha tirato le cuoia. Mentre uno dei tre guardiani si cala per recuperare la cassa, il marinaio lo aggredisce violentemente. Sta quasi per avere la meglio, ma il guardiano del faro, alla fine, prevale e lo manda all’altro mondo, e stavolta sul serio.
E da quel momento, una volta portata nella loro dimora, quella cassa inizierà a esercitare sui tre guardiani una notevole attrazione. Oltre a rappresentare l’inizio dell’oblio.
Da qui, lo spartito diviene libero, oltre che fonte di ogni possibile interpretazione.
L’incipit di una pagina ampia e priva di colori – sia per il regista che per gli sceneggiatori – sulla quale tracciare la propria personale e libera versione dei fatti. Tuttavia, almeno per un pezzo nel film ci si limita al racconto di un andazzo verosimile, cruento quanto fattibile. Specie se da calibrarsi rispetto alle capacità cognitive, sensibilmente ridotte, dei protagonisti; laddove avvizzite da una solitudine ingombrante, autoritaria, che impera nelle loro menti. Fino al punto di condurli, come soggetti a colpi di un insindacabile cilicio inquisitore, a ridefinire (ovviamente al ribasso) le pagelle delle proprie esistenze.
Non vengono cavalcate le onde di una sfrenata fantasia, si rinuncia di netto a qualunque deriva fantastica o soprannaturale, pur rimarcando il carattere lugubre di una terra di confine qual può senz’altro essere un’isola sperduta nel mare del Nord. Il tutto, dando luogo ad una narrazione dove l’inquietante e l’inquietudine restano sposi e amanti incontrastati di ogni fase del contesto, punteggiando di angoscia la visione dello spettatore.
Alcuni primi piani sono intensi da far rabbrividire, affini a interpreti di valore assoluto. E che fanno trasudare tutto il loro innato talento nell’interpretare personaggi sospesi fra le autocesure atte a recidere i cordoni che legano le loro coscienze ai loro ricordi e quel limite, indotto quanto inevitabile, che farà tracimare la propria volontà oltre il bordo più esterno della follia.
Grande Peter Mullan (Thomas), patriarca non avvezzo nella spontanea ammissione dei propri errori. Efficacissimo Gerard Butler (James), nella veste del patriota feroce. Non di minor impatto l’intepretazione del giovane Connor Swindells (Donald).
Il Dio denaro come ineffabile adescatore, motore perpetuo delle azioni e delle reazioni dei protagonisti, che per tutta la pellicola finiscono per annaspare nel colloso stuolo della tentazione e del desiderio di una vita diversa, pur nella necessità di una doverosa attesa, allo scopo di non dare nell’occhio e annacquare le tensioni emotive ingenerate dalla paura e dal rimorso.
In conclusione, un film che intrattiene e sa spaventare, pur senza l’ausilio di mirabolanti effetti speciali. Di certo, sconta la sussistenza di una abbondante dose di prevedibilità, specie in alcuni frangenti decisivi. Tuttavia, in alcuni momenti, questa circostanza asseconda la visione della pellicola, che resta scorrevole pur se coibentata dall’ormai imminente perdizione che attaglia le anime dei protagonisti.
Si, ribadisco che è un film che sa angosciare. Come un uncino che gratta la superficie più recondita dello stomaco. In quanto legata a reazioni vere e verosimili di uomini in condizioni di disagio e disperazione, uomini ormai privati della possibilità di tornare indietro sui propri passi.
Passi che hanno scavato fossati profondi e senza eco.
Anche perché, come sappiamo, ciò che l’uomo è – talvolta – in grado di porre in essere nella realtà, sa andare al di là della più tetra immaginazione.