23 maggio 1992 ore 17.55 circa, all’altezza dello svincolo per Capaci, lungo l’autostrada che corre sulla costa tra Punta Raisi e Palermo, il giudice Giovanni Falcone che da pochi giorni aveva compiuto 53 anni si trovava alla guida dell’auto della sua scorta, come spesso gli capitava di fare, chiedendo di guidare lui, ma che non ha mai più raggiunto la sua amata Palermo.
Mafiosi scrupolosi e loro fedeli assoldati, dopo una programmata meticolosa dinamica dell’attentato mesi prima, avevano posizionato ben 500 kg di tritolo proprio lì dove era previsto il passaggio del notorio magistrato antimafia e così in una esplosione enorme, rilevata persino dai sismografi siciliani, il giudice troverà la sua morte, dopo poche ore dal trasporto in corsa all’ospedale in condizioni disperate, tra le braccia del suo amico Paolo Borsellino.
Anni tristi, difficili, quelli definiti delle stragi, in cui chi li ha vissuti ricorda l’atmosfera, il grigiore dell’alea mafiosa, la promiscuità tra politica e malavita e malaffare, scoperchiato poi da Mani Pulite ma che i magistrati vittime delle loro indagini avevano cominciato a descrivere attraverso una fitta rete di relazioni, amicali e di interesse, che erano alla base di infiltrazioni mafiose in ogni settore della vita pubblica.
La morte di Falcone, considerata da Borsellino, come un’avvisaglia della sua, vissuta come un chiaro avvertimento anche nei suoi confronti, espresso nella famosa frase “siamo cadaveri che camminano” ha spento la vita, peraltro, gioiosa, piena di passioni e di amore per la propria terra, del famigerato magistrato, ma non ne ha spento la fiammella della luce, della speranza, della forza della verità e della necessità del coraggio di affrontare la paura perché anche la mafia, come tutte le cose degli uomini, avesse un inizio ed una fine con il contributo di tutti e l’unitarietà delle istituzioni.
A distanza di anni, le loro interviste, le loro parole, emozionano e turbano perchè al di là della loro perpetua attualità, spingono l’acceleratore sul sentimento di legalità che dovrebbe pervadere lo Stato e soprattutto testimoniano una cosa fondamentale, che spesso sfugge: che entrambi, Falcone e Borsellino non hanno mai agito da eroi, non si sono mai sentiti supereroi alla ricerca di fama e notorietà, non hanno mai vantato di avere superpoteri, bensì dimostrato che solo un’attività di indagine, fatta con coraggio e penetrando anche laddove risulti scomodo e pericoloso, può ripagare del duro lavoro con la scoperta della verità e l’individuazione delle responsabilità criminali.
La loro strategia investigativa, studiata e praticata ormai in tutto il mondo, risultò vincente, nonostante la loro perdita, perchè l’idea era di seguire il denaro…i grandi movimenti finanziari….le attività redditizie… e dunque trovare non solo i loschi affari ma anche nomi e cognomi di chi li poneva in essere, ne era l’artefice.
La rivoluzionaria scelta di costituire un pool antimafia, un vero e proprio gruppo di magistrati che indagavano ad ampio spettro sulle connessioni criminali, anche all’estero e che attraverso i loro loschi traffici di armi, droga, grandi opere pubbliche, venivano individuati nei vari tasselli di partecipazione alle attività criminose svolte in quei decenni nel nostro paese e che avevano spesso nei vertici politici i loro mandanti, esecutori o affiliati più stretti.
Col maxi processo di mafia, nato dalle rivelazioni di Tommaso Buscetta, primo pentito mafioso nella storia della Repubblica, si capovolge l’organizzazione del processo, perchè i capi d’accusa venivano sì formulati nei confronti dei mafiosi dal Pubblico Ministero ma alla base delle confessioni “di uno di loro”.
Oggi, sono passati trent’anni.
Eppure, l’amarezza, la stretta al cuore, una pressione nello stomaco mi colpiscono proprio come quel famigerato 23 maggio di trent’anni orsono quando si avvertiva la gravità dell’attentato, non tanto e non solo per la modalità e la spietatezza dell’eccidio che provocò la morte anche della moglie di Falcone e degli uomini della sua scorta, lasciando un dolore perpetuo in famiglie di onorati cittadini, bensì per la consapevolezza confermata dalla realtà che persino gli eroi possono essere sconfitti, persino gli eroi perdono i superpoteri quando la viltà umana vuole vincere il coraggio, quando la crudeltà umana vuole liberarsi della libertà, quando la violenza del sopruso vuole silenziare la verità.
Dopo anni, si è scoperto chi ha premuto il pulsante del tritolo, chi lo ha posizionato, chi ha gioito di quella esplosione, eppure malgrado lo squarcio della strada, delle auto, dei corpi e delle vite delle vittime coinvolte, la forza di Falcone e Borsellino resta più forte di quella esplosione, sempre più forte di anno in anno, perchè gli eroi di trent’anni fa sono eroi anche oggi allo stesso modo, non in quanto dotati di poteri straordinari o divinatori, ma perchè si sono distinti per il loro essere integerrimi, per il loro scrupoloso sentirsi al servizio dello Stato in onore alla toga che indossavano e per non aver rinunciato per paura alla ricerca della verità, credendo che la mafia potesse davvero essere sconfitta.
E così, in occasione di quest’anniversario, non possiamo non ricordare il coraggio pagato con la vita da uno degli uomini più significativi dei nostri tempi che con le sue azioni, le sue idee, le sue parole ha rivoluzionato un mondo, un modo di pensare e lo ha reso di pubblico dominio consentendo a ciascuno di noi, grazie al suo esempio, di pensare e ripensare e di scegliere, scegliere da che parte stare, distinguendo tra “mafia e mentalità mafiosa” e attribuendo all’onestà intellettuale e all’integrità morale ruoli fondamentali quando si è al servizio delle istituzioni.
Ripeteva spesso nelle sue interviste “Possiamo sempre fare qualcosa: massima che andrebbe scolpita sullo scranno di ogni magistrato e di ogni poliziotto“, ma che potrebbe benissimo essere applicata a tutti, una vera e propria targa della legalità di cui forgiarsi.