“È bello morire per ciò in cui si crede; chi ha paura muore ogni giorno, chi non ha paura muore una volta sola. Io accetto, ho sempre accettato più che il rischio […] le conseguenze del lavoro che faccio, del luogo dove lo faccio e, vorrei dire, anche di come lo faccio.”
Il 19 luglio del 1992, a Palermo, avveniva uno dei fatti più gravi della nostra storia repubblicana; qualcosa che ha scosso nelle viscere il nostro Paese e che noi tutti, in quanto cittadinani, abbiamo il dovere assoluto di ricordare. In via D’Amelio, insieme a cinque agenti della scorta, veniva assassinato uno dei simboli della lotta contro la mafia, Paolo Borsellino. Come sappiamo, insieme all’amico e collega Giovanni Falcone, egli è stato uno dei più importanti magistrati del pool antimafia, ed entrambi hanno pagato con la vita la loro battaglia contro Cosa Nostra.
Nato nel capoluogo siciliano nel 1940, Borsellino si laureò in tempi record in Giurisprudenza e, a soli 23 anni, divenne il più giovane magistrato d’Italia. Nel 1875, venne trasferito all’Ufficio istruzione del Tribunale di Palermo dove iniziò a collaborare con Rocco Chinnici, il quale fu assassinato nel 1983. Lo stesso Chinnici mise su il pool antimafia, ovvero un insieme di giudici istruttori concentrati solo sulle questioni attinenti alle attività mafiose. Di questo pool faceva parte pure Falcone, il quale, proprio in collaborazione con Borsellino, istituì un maxi-processo scaturente dalle dichiarazioni rilasciate dal pentito Tommaso Buscetta. Per via del loro impegno, ai due giudici di ovviamente assegnata la scorta ed essi dovettero finanche isolarsi per un periodo all’Asinara, con le loro famiglie, per tutelare la loro incolumità.
Dopo lo scioglimento del pool antimafia e un breve incarico a Marsala, Borsellino divenne procuratore aggiunto a Palermo. Il 23 maggio del 1992, in quella che è passata allo storia come strage di Capaci, fu ucciso Giovanni Falcone – insieme a lui morirono anche la moglie e tre agenti della scorta – e da quel momento Paolo Borsellino iniziò a sentirsi un “condannato a morte”, come lui stesso si definì, e cominciò a denunciare la condizione di isolamento in cui si trovavano i giudici. Purtroppo, come si diceva, il 12 luglio del 1992, i sicari lo attesero in via D’Amelio, mentre stava recandosi in visita alla madre, e fecero esplodere un’auto imbottita di tritolo. Come si seppe dopo la sua morte, la mafia stava progettando il suo omicidio già dal 1991. I familiari del giudice rifiutarono i funerali di Stato, accusando infatti le istituzioni di non averlo sostenuto.
Sono passati 28 anni da quel terribile giorno, tuttavia i dubbi attorno alla morte di Borsellino sono ancora parecchi. Prima fra tutte c’è la questione della famosa agenda rossa. Secondo quanto più volte dichiarato dalla figlia Lucia, il padre, quel giorno, aveva nella sua borsa quell’agenda dove era solito appuntare tutto ciò che riguardasse il suo lavoro. Eppure, quando la borsa fu riconsegnata ai suoi cari, dell’agenda non c’era più traccia. Nel complesso, poi, le indagini furono rese difficili per via di falsi pentiti, concessioni e condanne ribaltate.
Nelle quasi 2000 pagine motivazionali per il quarto processo del caso Borsellino, depositate il 30 giugno 2018 dalla Corte d’Assise di Caltanisetta, i giudici, non a caso, hanno affermato che questo è stato “uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana” che ha coinvolto uomini delle istituzioni.