19 luglio 1992: non sono passati due mesi dalla morte di Giovanni Falcone, che la Mafia colpisce duramente e ancora.
Paolo Borsellino morirà insieme ai suoi uomini della scorta, di cui faceva parte per la prima volta in Italia una donna, Emanuela Loi, vittima anch’essa dell’autobomba piazzata sotto casa della madre in attesa del suo arrivo.
La storia di quei mesi della nostra Prima Repubblica è una storia ambigua, non facile da raccontare, per certi versi scomoda, visto il fallimento decisivo dello Stato non in grado di tutelare, a distanza di meno di sessanta giorni, due tra i suoi maggiori rappresentanti della Magistratura Anti-Mafia.
In questi giorni, poi, che la Magistratura è tornata a far parlare di sè, in certo qual modo “male”, a causa di logiche corruttive insinuatesi persino nelle aule dei Tribunali e nelle stanze dei PM, decidendo le sorti della vita delle persone e dimentica dei principi di diritto, di quel diritto sostanziale baluardo dei diritti umani, a fatica conquistati e conclamati nella nostra Carta Costituzionale, fa impressione rievocare alla mente il ricordo di Paolo Borsellino e, inevitabilmente, con lui quello di Falcone.
La strage di Via D’Amelio è stata definita una strage di Stato, così drammaticamente battezzata e ripetutamente e insistentemente così denominata dalla famiglia Borsellino, che hanno visto nell’inerzia dello Stato una concausa della morte di Borsellino e una sorta di patto con Cosa Nostra, come la scomparsa della famosa Agenda Rossa mai più ritrovata, oggetto delle molteplici contestazioni da parte dei figli, con processi accusati di essere finalizzati più a lenire il malumore popolare che a ricercare la verità storica e giuridica delle due stragi.
Comunque siano andati i fatti, quale che siano le connivenze tra Politici e Mafiosi, così aspramente denunciate nel corso di tutta la sua carriera da Borsellino, certo è che strage di Stato lo è stata perchè non solo sono state distrutte vite umane ma è andato letteralmente in frantumi anche un progetto importante, vanificandosi in meno di un istante lo zelante e incessante lavoro dei giudici coinvolti: la creazione di un pool antimafia che, insieme, ha provato a eliminare “cosa nostra” finendone tremendamente vittima, due volte, come persone (compresi gli innocenti uomini della scorta che hanno immolato la loro vita per la causa di Stato e il suo fondatore-promotore, Rocco Chinnici, anch’egli ucciso in un attentato anni prima) unitamente al dolore straziante dei loro familiari e come idea, progettualità giuridica destinata a raggiungere il fine nobile di scoperchiare il vaso di Pandora delle logiche mafiose presenti nei Palazzi di Potere di tutta Italia, compresi quelli della Capitale.
Pochi giorni dopo la sua morte, in un’intervista, rilasciata da uno dei suoi amici magistrati, Antonino Caponnetto, a Gianni Minà, pone un interrogativo – a cui nessuno ha mai dato una spiegazione plausibile – sul fatto che Borsellino, sapendo benissimo di essere nel mirino dei suoi acerrimi e, manco tanto, velati nemici, aveva chiesto più volte, nelle settimane precedenti alla sua morte, di liberare la strada della madre dalle macchine ivi presenti, richiesta mai evasa dalla Questura di Palermo, segno di un drammatico presagio del suo inevitabile destino.
Come segno di protesta per la mancata e adeguata protezione della vita del marito, la vedova Borsellino opterà per la cerimonia funebre privata senza Autorità, se non il Presidente della Repubblica e il Ministro della Giustizia e ben pochi altri rappresentanti, in una piccola Chiesa Santa Maria Luisa di Marillac, in una zona periferica di Palermo, dove il giudice sentiva messa, più o meno abitualmente, alla presenza di ben 10000 persone che protestavano e gridavano “fuori la mafia dallo Stato”.
Paolo Borsellino, fin da subito, ha dimostrato di avere grandi doti per la lotta ai sistemi distorti, alle corruzioni, alle prepotenze, alle infiltrazioni mafiose, e con Falcone, aveva creato, in virtù di un’antica amicizia, un sodalizio unico e irripetibile, fatto di “comunione di intenti” e spirito di condivisione. E se uno era fastidioso, in team erano insopportabili ecco perché non rimaneva che eliminarli e loro ben sapevano e vivevano, ogni giorno, nella consapevolezza di avere i giorni contati come dei veri e propri condannati a morte in regime di libertà apparente.
A seguito della morte di Falcone, Borsellino ripeterà sempre “siamo cadaveri che camminano” sentenziando a mo’ di oracolo anche per sè l’ineluttabilità di un destino già scritto.
Allora, è giusto riportare alla sua memoria, oggi, a distanza di 28 anni da quei giorni, non la visione nostalgica di un uomo che non c’è più, ma la forza delle sue parole e dei suoi messaggi, delle sue idee e dei suoi pensieri, ancora molto forti nella loro eco, nell’assenza totale trent’anni fa di qualsiasi social, così come massicciamente presente attualmente nelle nostre vite, ma che oggi riecheggiano ancora e fanno sentire il loro peso e la pregnanza del loro significato.
La personalità di Borsellino e di Falcone è indiscutibile, ed è un dovere, pur nella tristezza della commemorazione, trasferire questi pensieri e questo agire a tutte le generazioni, nuove e vecchie, in modo da fare dell’onestà intellettuale non la straordinaria manifestazione di un modo di vivere ma la normalità di un agire quotidiano e l’interiorizzazione di un modo di essere, proprio come era nella loro indole e nella loro estrema umana fragilità, sconfitta e fermata solo da chili e chili di esplosivo: eppure il loro messaggio e il loro esempio sono lì, più forti che mai, indistruttibili, sempre presenti e assolutamente vincenti!