Un film che, più che per la trama, mi ha colpito per le sue rocambolesche vicissitudini al contorno. Cosa voglio intendere? Avete presente un regista che, in sostanza, disconosce il prodotto finale e non si presta alla sua promozione perché non lo sente affine alle proprie idee? Ecco voglio intendere proprio quello. La questione assume un tono roboante dato il livello e il calibro nominale del regista, un certo Brian De Palma. E, che ne dite, vi pare poco? A me no, affatto.
Copenhagen, 2020. Due poliziotti danesi, Christian e Lars, peraltro di malavoglia, accorrono presso un posto per una segnalazione di “schiamazzi notturni”. Dei due, Christian scorda pure l’arma a casa, ma, in ragione dell’apparente pochezza della circostanza da controllare, non si strappa i capelli.
Il vero problema viene dopo; ovvero, quando entrambi diventeranno consapevoli che non sono stati di certo chiamati per quel motivo banale. Quando il reale motivo della chiamata si rivela tutt’altro, ossia un delitto connesso al terrorismo internazionale, due poliziotti con un’arma in tutto a disposizione si rivelano efficaci come un fiammifero sulla pietra.
Torniamo un attimo sulla singolarità di questo film. Ci sono molti casi in cinematografia a riguardo di film rinnegati dai loro stessi autori, magari perché quasi vergognatisi di vedere il risultato a valle del montaggio complessivo. Messa in scena approssimativa, recitazioni goffe, se non addirittura risibili, in primis: motivo? Contrasti e scontri all’arma bianca sul set, ad esempio in base a frizioni che insorgono tra la direzione artistica e lo staff di fase esecutiva. Addirittura, si annoverano anche casi limite, dove la produzione arrivava a sostituire al nome del regista uno pseudonimo assai utilizzato, ovvero tal “Alan Smithee”.
Anche Brian De Palma ha navigato nella sua carriera tra alti, bassi e generiche fase di stallo, creativo quanto produttivo. Ma mai era arrivato a disconoscere una propria opera, come in “Domino”.
Il regista ha preso con tenacia le distanza dal montaggio finale, che attribuisce agli effetti di una profonda riformulazione da parte di altri soggetti. Tuttavia, ci riesce assai difficile credere al fatto che la bassa qualità della pellicola sia da ricondurre unicamente all’opera di terzi. La sensazione, netta, è che il regista metta un po’ le mani avanti. La verità è molto più semplice: approccio superficiale da parte di tutti, attori compresi, pessimo livello di computer grafica utilizzata – veniamo da ben altre prestazioni recenti, e ci siamo forse anche abituati male -, oltre a una caterva di elementi che recano disfunzionalità all’intero apparato del film.
Forzature? A bizzeffe, vedasi, ad esempio, il ruolo attribuito alla CIA, riprodotto come una sorta di alveare di pigrizia e peccato; un cast poco motivato, più abituato a recitare in serie televisive.
Scarsa attenzione a dettagli di natura scenografica, quasi tale da non farci comprendere che siamo a Copenaghen – la scena d’apertura dedicata al passaggio dei ciclisti è di “commovente” pochezza – e non ci restituisce affatto l’afflato iconico di quella città viva e pulsante che invece è la capitale di Danimarca.
C’è da dire che De Palma non è mica nuovo a dissapori con l’universo Hollywoodiano; film come ”Passion” o ”Redacted”, molto intimistici e audaci, han tuttavia dato luogo a fallimenti commerciali che non gli sono stati perdonati. E a cui, benchè solo in un secondo momento, per effetto dell’inevitabile sete di vendetta del Gotha cinematografico, sono state poi direttamente a lui attribuite le responsabilità relative alla presenza di numerose fragilità di sceneggiatura. E questo, pur potendo obiettivamente constatare un forte imprimatur poetico dell’autore.
Tuttavia ‘Domino’ ha elementi da cui la paternità di De Palma si rivela chiara, netta, incontrovertibile. Qualche esempio? La zoomata sulla pistola dimenticata. I crescendo di Pino Donaggio; le citazioni da ”La donna che visse due volte” e l’ossessione per il rapporto tra immagine e morte, che culmina nella sequenza dello split screen sul tappeto rosso di un festival cinematografico.
Pare quasi che le intuizioni di un tempo, oggi, si rivelino quasi inadeguate a ritrarre la dinamica realtà dei giorni nostri, verso un incubo hitchcockiano in carne ed ossa. Si eccede, peraltro anche in autocitazioni, come qualcuno ha sarcasticamente sottolineato.
Di fronte alla macabra deriva del reale, De Palma si sente quasi obbligato a fotografare il nuovo orrore causato dal potere dell’immagine – le esecuzioni di ISIS, le tecniche di persuasione della CIA – e a rivendicare il presagio di un futuro che lui aveva “annunciato in tempi non sospetti”.
La verità è che in questo lavoro mancano mezzi e brio narrativa. Nella stessa sequenza conclusiva, collocata nell’ambito della Plaza de Toros di Almeria, è il set ideale di un epilogo hitchcockiano da ”L’uomo che sapeva troppo”, il regista pare ricalibrare “Omicidio in diretta” al tempo dei droni e del martirio multimediale.
Sviliti e inespressivi i volti e le posture di Nikolaj Coster-Waldau e Carice Van Houten.
Anche la discutibile sintesi che il medesimo regista attribuisce, tra le righe, al film – “Siamo americani, quindi leggiamo le vostre mail” – appare rozza e frutto di una stanchezza emotivo-motivazionale che pare essersi insinuata anche nell’indole del “venerabile” Brian De Palma.
E questo, specie in un’epoca stilistico-regressiva dove i punti di riferimento cinematografici vengono trascinati via dal qualunquismo e dal “produttismo a tutti i costi”, come indolente sabbia sulla battigia, non ci fa affatto piacere.