La Cop26 è la Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici del 2021, programmata a Glasgow in Scozia, dal 31 ottobre al 12 novembre 2021, sotto la presidenza del Regno Unito.
I leader mondiali presenti in Scozia sono più di 190 senza contare i migliaia di negoziatori, rappresentanti di governo, imprese e cittadini che si stanno susseguendo e si susseguiranno per questi giorni di negoziati.
Cop sta per “Conferenza delle Parti”: sono ormai tre decenni che l’ONU, a fronte di una aumentata sensibilità per il clima e le sue trasformazioni, riunisce quasi tutti i Paesi in vertici globali dedicati al tentativo di risoluzione delle relative problematiche.
Nel tempo, il cambiamento climatico è passato dall’essere vissuto come una questione marginale posto da pochi scettici fino a diventare, ai giorni nostri, anche attraverso le voci dei più giovani, in primis, Greta Thunberg con la sua determinazione e ostinazione, una priorità globale che va affrontata e presa in carico oggi per garantire a tutti un futuro più sicuro.
Assistiamo ormai agli effetti dell’inquinamento sul clima che sono sempre più devastanti.
Le condizioni atmosferiche, lo scioglimento dei ghiacciai, l’aumento consistente delle temperature, la persistente mancanza di cura del nostro Pianeta, la drammatica manifestazione delle forze naturali, gli allevamenti intensivi e le eccessive e dannose emissioni, sono solo alcuni dei problemi con cui bisogna fare i conti per virare velocemente verso un miglioramento dello stato di salute della Terra.
A presiedere la COP26 c’è il Regno Unito, con un compito significativamente impegnativo, perché questo non è solo un vertice internazionale, ma, come dichiarato dalla maggior parte degli esperti, riveste carattere straordinario e urgente date la situazione presente e l’impellenza di una risoluzione.
Nella conferenza stampa conclusiva, il presidente della COP 26 Alok Shama e il ministro Roberto Cingolani hanno illustrato i punti salienti di Glasgow:
- maggiore impegno per mantenere il riscaldamento globale sotto 1,5 °C;
- aumentare i contributi determinati a livello nazionale (NDC);
- garantire il fondo da 100 miliardi di dollari ai paesi in via di sviluppo;
- proseguire con il regolamento attuativo (Rulebook) per l’esecuzione dell’Accordo di Parigi;
- disincentivare qualsiasi investimento in ricerche per i combustibili fossili.
Proprio la COP21 che si tenne a Parigi nel 2015 rappresenta il precedente eccellente sulla rinnovata sensibilità per il tema, in quanto, è stato in quella sede che successe qualcosa di epocale e tutti i Paesi compresero la necessità di collaborare per limitare l’aumento della temperatura globale ben al di sotto dei 2 gradi, puntando a limitarlo a 1,5 gradi perché ogni decimale di grado di riscaldamento è responsabile della perdita di molte vite umane senza trascurare gli enormi danni all’ecosistema complessivamente inteso.
Inoltre, e questo è il punto nodale di quel vertice, i Paesi s’impegnarono con il cd. Accordo di Parigi a limitare l’impatto dei cambiamenti climatici e a rinvenire le risorse necessarie per raggiungere questo traguardo.
Nel quadro dell’Accordo di Parigi, ciascun Paese si è impegnato a creare un piano nazionale indicante la misura della riduzione delle proprie emissioni, detto Nationally Determined Contribution (NDC) o “contributo determinato a livello nazionale”, con una pianificazione concordata e cadenza quinquennale.
Nonostante l’importanza degli impegni di Parigi da attuarsi entro il 2030, purtroppo si sono rivelati insufficienti a limitare il riscaldamento globale a 1,5 gradi in quanto gli effetti delle decisioni ancora devono prodursi per l’inattività di molti Stati e per l’avanzata inarrestabile dei cambiamenti a fronte dei quali si contano ogni anno decine e decine di morti, nonché devastazione e distruzione ambientale.
Se solo voltiamo lo sguardo a qualche settimana fa, nella nostra Penisola, sono ancora impresse nella memoria le immagini di una Catania sotto lo scacco di un vero e proprio uragano con una città in ginocchio e una gravosità e impeto delle condizioni climatiche che non rendono possibile ed efficace alcuno strumento di prevenzione tanta la forza e la violenza devastatrice dei fenomeni naturali climatici che si abbattono improvvisamente e imprevedibilmente nei nostri territori, anche in territori non abituati a tale forme intense di precipitazioni e inondazioni.
Da oggi inizia la seconda settimana della Cop26 di Glasgow che chiuderà i suoi battenti venerdì 12.
Facendo un primo resoconto, gli accordi, finora conclusi, riguardano deforestazione, emissioni di metano, finanza verde, stop ai fondi al carbone, agricoltura sostenibile, oltre a impegni maggiori dei singoli stati per decarbonizzare (gli Ndc, Nationally Determined Contributions).
Tra gli obiettivi messi in campo, la necessità di intervenire prioritariamente sulla trasparenza delle modalità di comunicazione dei piani da parte degli Stati che vanno regolamentate e uniformate al fine di evitare che gli stati finiscano per dire cose poco comprensibili e poco chiare, senza il rischio di chiaroscuri nè ambiguità interpretative.
Altro tema scottante è il prezzo globale del carbonio. Nel mirino della conferenza, la volontà di provare a gestire in qualche modo il mercato mondiale delle emissioni di carbonio, come l’Ets dell’Unione europea per cui chi emette gas serra deve pagare gli Stati per farlo in modo da indennizzare i danni ambientali provocati.
Il cosiddetto Paris Rulebook per salvare la Terra è l’insieme delle regole per applicare l’Accordo di Parigi, cioè il “quaderno dei compiti” da assegnare a tutti gli Stati con norme uguali per tutti. Buona parte di queste sono state definite alla Cop24 del 2018 a Katowice in Polonia, ma restano ancora da concordare i regolamenti attuativi, anche questi dunque tema caldo del vertice internazionale in corso.
Altro dossier in campo, particolarmente complesso, riguarda la fissazione dello stop mondiale alla produzione di auto e piccoli furgoni a motore termico con indicazione di date papabili per il 2035 o il 2040.
La presidenza britannica, che ha cambiato decisamente la propria impostazione e ha abbandonato l’iniziale diffidenza sul tema, mira a raggiungere l’obiettivo di chiudere 12 accordi concreti e di riuscire nell’intento di portare a casa un buon successo di obiettivi, traguardi e misure effettive tanto che il premier Boris Johnson, al riguardo ha richiamato il fattore responsabilità e assunzione di responsabilità da parte di tutti i partecipanti e ha precisato che i paesi del mondo devono essere pronti “a fare i compromessi coraggiosi e a prendere gli impegni ambiziosi che sono necessari“.
Sul tema, la Banca Mondiale, chiamata in causa di recente per la sua assenza anche dal Presidente del Consiglio, Mario Draghi, ha annunciato a Glasgow l’impegno a spendere 25 miliardi di dollari all’anno in finanza per il clima fino al 2025, attraverso il suo Climate Action Plan che comprende un programma sull’agricoltura e il settore alimentare.
Nonostante i buoni propositi e le belle parole, resta la divaricazione drammatica tra l’urgenza dettata dallo stato di salute del nostro Pianeta, rappresentata in modo perentorio dalla scienza, e la concretezza degli atti e delle determinazioni della “comunità internazionale” costretta ormai a muoversi in tutta fretta e con strategie efficaci ed efficienti sotto lo sguardo attento e speranzoso di tutta una umanità che dipende dalle loro decisioni.
Non a caso, ha fatto il giro del mondo, divenendo virale, il video del Ministro, Simon Kofe, dell’isola polinesiana, Tuvalu, situata nell’oceano Pacifico a metà strada tra le isole Hawaii e l’Australia, che con giacca, cravatta, bandiera di Stato rappresentativa alle spalle per le grandi occasioni e un bel leggio, pronuncia il suo discorso con un bermuda da cui si intravedono le gambe immerse nell’acqua alta fino al ginocchio.
Trattasi di un vero tragico grido di allarme per una serie di atolli che stanno vivendo il dramma di inabissamento a causa dell’impatto dei cambiamenti climatici e dell’innalzamento del livello del mare dovuto al riscaldamento globale.
Il video sarà trasmesso martedì durante la Cop26 perchè si sensibilizzino ancora una volta gli Stati sulle condizioni di salute del mondo e si assumano decisioni coraggiose e determinanti proprio per salvare e salvaguardare quelle zone della Terra maggiormente esposte al disastro ambientale o addirittura, come nel caso di alcune isole polinesiane, al rischio della loro scomparsa.
Ma la dialettica politica sarà in grado di accogliere le istanze provenienti dal mondo? di rinvenire soluzioni possibili e soddisfacenti? di compenetrarsi nella ricerca di accordi in grado di portare benefici effettivi per l’ambiente?di rinunciare a proprie forme di autonomia, di guadagno e di autodeterminazione per cedere e concedere agli altri?
Di qui la provocazione di Greta che si è non solo dichiarata insoddisfatta dalle chiacchiere inconcludenti dei grandi della Terra, ma ha protestato con un “bla bla bla” che sa più di sfottò che di strategia risolutiva.
Probabilmente alla fine di questa settimana, si porterà a casa qualche risultato ma non sarà quello richiesto soprattutto dai giovani della Terra che si sono pre-riuniti a settembre nè tanto meno quello necessario per ridurre gli effetti devastanti di quanto già avvenuto in maniera inarrestabile e che non è possibile più evitare.
Quale che sia la proposta conclusiva che arriverà da Glasgow alla fine del blablabla internazionale, forse sarebbe necessaria, comunque, una fase di riflessione che coinvolga la responsabilità di ciascuno nel proprio vivere quotidiano, ricordando il dictat di una piccola donna coraggiosa, che qualcuno critica per le sue attitudini personali e per la strumentalizzazione di cui è divenuta vittima, suo malgrado, ovvero che “Non sei mai troppo piccolo per fare la differenza” e, quindi, agire sempre e comunque ricordando di amare la nostra Terra, rispettarla e contribuire nel proprio piccolo a rendere il nostro mondo un mondo migliore.