Già da un po’ non era più la stessa. La ferita del 13 novembre 2015 non si è mai del tutto rimarginata. I fucili di quella notte, al Bataclan, quei novanta cadaveri hanno cambiato il suo volto per sempre. Poi, una delle parti più belle del suo corpo ha cominciato ad ardere. Così, in un giorno normale, distinto solo da un tramonto perfetto, lingue di fuoco dai colori freddi le consumavano il cuore. Notre-Dame de Paris era in fiamme, bruciava dall’interno al ritmo dei canti religiosi che pian piano riempivano la città. È venuto poi il tempo della fame e della rivolta. Gilet gialli più o meno violenti telavano le strade del sabato pomeriggio in cerca di giustizia sociale. In quei giorni, sembrava chiaro chi fosse la rivoluzionaria d’Europa, alcun dubbio su chi avesse traghettato il mondo contemporaneo verso la libertà.
E oggi un altro velo copre Parigi. Il Presidente Emmanuel Macron annuncia il coprifuoco dalle 21.00 alle 6.00. Pena: un’ammenda di 150 euro per una prima infrazione, di 1.500 euro per la seconda. Poi, spazio alle sanzioni penali. Così si spegne la notte parigina. Ludo, il mio vicino innamorato di Flaubert, mi chiede se Parigi esisterà ancora quando nessuno potrà vederla. Se i ponti continueranno a illuminarla quando nessuno proverà quel fremito infantile scorgendoli proprio nel momento in cui si accendono. E allora, camminando sotto i muri insieme ai roditori parigini, vado in esplorazione. E sì, i ponti brillano ancora. E sono magnifici. E Parigi è sempre qui. Ma è cambiata.
In Italia, la storia si è spesso decisa nei ristoranti della domenica, quelli con l’acquario all’entrata e il trompe l’œuil alle pareti. A Parigi, invece, si è fatta nei caffè e nei bistrots. Sono la sua anima, quella che di giorno non si vede, ma che fa di Parigi, Parigi. É al Café de Flore a Saint-Germain-des-Près che J.-P. Sartre scopre l’inconsistenza del vivere umano e inaugura l’esistenzialismo. La “banda Prevert” siede pochi metri più avanti, al caffè Les Deux Magots, definito da uno dei padri del cinema francese, Roger Leenhardt, come “il quartiere generale dei comunisti eretici, dei cineasti irriducibili al commerciale, dei surrealisti dissidenti”. C’è poi La Closerie des Lilas, dove Ernest Hemingway scrive “Festa Mobile”, rinominato in Francia “Paris est une fête”, tradotto “Parigi è una festa”.
Ed è proprio questo lo slogan che echeggia all’indomani degli attentati volti a colpire la Parigi dei caffè e dei bistrots, dei “luoghi di determinazione sociale”, come li chiama Alain Fontaine, presidente dell’Associazione per l’iscrizione degli stessi al patrimonio immateriale dell’Unesco. Sono anche gli unici posti in cui si può sentire quel mormorio costante che a noi italiani sbarcati qui manca tanto e che tanto osiamo criticare quando torniamo a casa. Quelle voci sono la coscienza di Parigi, i suoi pensieri sinceri, le sue confessioni, i laboratori delle sue rivoluzioni e dei suoi amori. I fiumi di Picon Bière e di Bordeaux fanno affiorare sorrisi rosei sui volti parigini ingrigiti dal clima e dalle sfide che ogni giorno affrontano per poter vivere qui. Dagli appartamenti di 8 metri quadri alle metropolitane che, tolta ogni dimensione poetica, restano tuguri in cui si viaggia stretti come sardine in scatola.
Sì. Anche in questi giorni. Le metropolitane sono piene, come anche gli uffici. Le mani operaie di Parigi non si sono mai fermate. È la sua anima ad esser sacrificata. Il discorso di Macron non lascia dubbi: la Francia dovrà trattenere il respiro fino all’estate 2021. Gli ospedali sono saturi e, per fare il tampone, c’è da attendere ore in un’atmosfera da lazzaretto.
Sembra quasi piombata nel medioevo la bella Parigi. Non si può negare che, un po’ macilente e silenziosa, senza turisti, la Ville Lumière abbia recuperato il suo fascino decadente e sia ancora più attraente del solito. La musica triste sui ponti prende tutto il suo senso in questa bolla grigia che è l’inverno 2020. “Parigi è una festa”, dicevano dopo il 13 novembre 2015. Ma non lo è mai stata. Sui suoi ponti non c’è la samba di Rio né la tarantella napoletana, non c’è reggae o funky, c’è la Vie en Rose a capo di un repertorio musicale struggente che da Barbara si estende sino a Léo Ferré. Ed è proprio il suo sguardo malinconico e felice a rendere Parigi così irresistibile. Però, dobbiamo ammetterlo, oggi qui si sente il disagio e con questi nuovi decreti il distanziamento fisico, acquisisce davvero una dimensione sociale. Le misure proposte da Macron sono probabilmente necessarie, forse no. Ma non importa. Ciò che importa è chiederci a cosa rinunciamo quando rinunciamo a “Paris, la nuit“, come diceva Jacques Prévert.