Sono sempre qui, seduto sul divano del mio soggiorno. Vegeto in cerca di qualcosa di nuovo o quanto meno di inaspettato. È un periodo in cui le mega produzioni statunitensi mi hanno saturato. Decido dunque di accendere la tv. È un gesto che non faccio da anni se non per eventi eccezionali. Eventi così eccezionali che non riesco a ricordare l’ultima volta che ne è accaduto uno. Con l’espressione “accendere la tv” non intendo l’atto di accendere lo schermo, quanto più quello di impostare l’input su “antenna tv”. Ad oggi è niente affatto scontato. Nell’era dello streaming l’antenna appare così vetusta da finire nell’oblio talvolta. Eppure è sempre lì, oggi digitale anche lei, ma pur sempre terrestre. Sono davvero curioso di osservare cosa accade in Mediaset ed in Rai in primis. Esistono ancora? Trasmettono nel 2020?
Ciò che sto per fare è un classico degli anni ’90 e 2000: lo zapping. L’emozione è forte. Chiunque abbia almeno trent’anni conosce bene l’argomento.
Serie tv americana. Talent su format americano. Film americano. Altra serie tv americana. Altro film americano. Bruno Vespa. Spengo immediatamente.
L’egemonia del nuovo continente è palese, ovunque. Non che fosse necessario scomodare la tv generalista. Dal cinema ai servizi di streaming siamo sommersi da pellicole made in USA. Del resto se penso alla qualità media di ciò che viene sfornato nel bel paese, c’è quasi da tirare un sospiro di sollievo. Poi penso alla qualità media del cinema statunitense e quel sospiro lo trattengo.
Ma un luogo come l’Italia è davvero incapace di competere tecnicamente e artisticamente con gli Stati Uniti? Possibile che in tutte le altre sei forme d’arte questa penisola abbia prodotto delle eccellenze senza tempo ed invece pecchi inesorabilmente nel confronto con la settima? È necessario indagare.
Ricordo che la settimana scorsa, nel viaggio a Washington, il presidente Wilson parlò entusiasticamente di un film italiano, Cabiria, tanto da aver voluto che fosse il primo film proiettato alla Casa Bianca. Griffith, suo interlocutore, concordava con entusiasmo, tanto da additarlo come sua fonte di ispirazione. I due pareva avessero visto effettivamente un capolavoro del cinema italiano. Lì per lì la cosa non mi stupì più di tanto. Il cinema d’autore è qualcosa di cui non possiamo dirci digiuni da queste parti. Ma conoscendo un po’ la sensibilità del regista, a ripensarci, ho il sentore che non si trattasse solo di questo.
Le informazioni che si trovano a riguardo sono più che mai scarse. Non resta che affidarsi al fedele biglietto dorato per andare alla scoperta di quest’opera misconosciuta.
È il 18 aprile 1914. Il vento della guerra soffia più tempestoso che mai in Europa. Tra circa due mesi a Sarajevo sarà assassinato l’arciduca Francesco Ferdinando. Qui a Torino i pensieri oggi però sono rivolti ad altre faccende, almeno per il trentaduenne Giovanni Pastrone. Stasera sì terrà la prima del suo ultimo film, Cabiria. Con lui c’è un fedele compagno d’avventura, niente poco di meno che il poeta Gabriele D’Annunzio. A lui è stato infatti affidato il compito di nobilitare l’opera con le sue auliche didascalie. Durante la lavorazione si è ritrovato anche a dover dare un nome ai personaggi principali, compreso quello che rimarrà nell’immaginario di tutti noi: Maciste (fortissimo), nato proprio in questo film. Suo è anche il titolo Cabiria (nata dal fuoco). Conoscendo così poco del film decido di soprassedere e partecipare alla prima, rimandando la chiacchierata con i due a dopo. Prendo posto con non poche perplessità. Abituato come sono alle grandi produzioni nordamericane temo di rimanere deluso.
Le luci del teatro si spengono per riaccendersi solo tre ore più tardi. In un’epoca in cui la durata media delle proiezioni non supera mai i trenta minuti, già solo questo dato mostra l’ambizione del film. L’opera a cui ho assistito è semplicemente grandiosa! Adesso comprendo l’entusiasmo del presidente degli Stati Uniti! Si tratta del primo colossal della storia del cinema. Nonostante non abbia nessuna tradizione a cui rifarsi, si trovano al suo interno tutti gli elementi caratterizzanti del genere. Sono sbalordito, devo assolutamente raggiungere gli autori, quanto meno per congratularmi. I due sono sommersi da una folla che li osanna e non è facile avvicinarsi. Con un po’ di pazienza ottengo il premio della loro compagnia. Subito domando a Pastrone quanto sia costato realizzare un film così grandioso. Racconta che per la prima volta una pellicola ha raggiunto la lunghezza incredibile di tre chilometri e mezzo! Per quanto riguarda i costi sostenuti, i numeri sono ancora più incredibili. A fronte di una spesa media per film di circa 50mila lire, Cabiria è costato quasi 1 milione! Una cifra pazzesca anche solo da pensare. Le location sono state davvero molte, alcune persino all’estero. Per gli effetti speciali è stato assunto il più grande esperto dell’epoca, Segundo de Chomón. Pastrone sottolinea come Segundo abbia lavorato per anni per il maestro Méliès! Tutti gli effetti speciali, compresa l’incredibile eruzione vulcanica dell’Etna, sono opera sua. D’Annunzio però ci tiene a sottolineare che non si tratta solo di un film atto a stupire con gli effetti, ma di una vera e propria opera d’arte e che come tale è necessario giudicarla. Pastrone annuisce con serietà aggiungendo che per la prima volta le musiche, che abbiamo sentito suonate dal vivo, sono state composte appositamente per il film. Tra me e me penso che si tratta della prima colonna sonora della storia! Domando allora spiegazioni sui movimenti di macchina. Se c’è infatti qualcosa che mi ha stupito sono proprio queste immagini in continuo movimento, al contrario di tutti i film dell’epoca che peccano di una staticità ferrea. Pastrone si illumina ringraziando. Racconta che due anni prima ha brevettato un apparecchio chiamato carrello. Apparecchio che serve proprio per permettere alla camera di muoversi all’interno della scena. Il suo desiderio era che lo spettatore si sentisse più coinvolto nell’azione. Ma come? Pastrone ha inventato il dolly e con esso i movimenti di macchina?! Sono esterrefatto! Come può una sola opera contenere tante novità ed invenzioni? Come può una sola opera essere una così netta frattura con ciò che lo precede? C’è del genio senza dubbio. Avrei tanto altro da domandare ai due intellettuali, ma la folla li acclama e scompaiono nella calca senza che abbia modo di salutarli. Non ho avuto nemmeno il tempo di chiedere delucidazioni sui colori che si alternano lungo la pellicola, cosa mai vista prima. Pazienza. La mia gioia per questo incontro è tanta, soprattutto dopo aver scoperto che Cabiria ha registrato un successo ancora maggiore nella patria del cinema: New York. Infatti lì, nella grande mela, rimarrà in proiezione fino all’anno successivo! Un successo senza precedenti.
Non posso che concludere, per rispondere al quesito iniziale, condividendo una riflessione del 1921 di Guglielmo Giannini, scrittore e regista napoletano, a proposito della superiorità del cinema statunitense su quello italiano: “Che cosa vanno cantando questi amici nemici e così così, sulla tecnica nuova, sul progresso che dovremmo fare e non facciamo, sulla marcia nostra inferiorità, sulla insanabile nostra capacità di uguagliare — non superare! — gli americani? […] basterebbe solamente che tornassimo all’antico, basterebbe solamente togliere a quell’antico un po’ di cartapesta soverchia o dipingerla meglio e con più cura, per superare, non uguagliare, di dieci miliardi di chilometri tutti quanti! […] La tecnica di Cabiria non è superata: la verità è che nessuno è più buono — o crede d’esser buono — a farla. Questo è. […] Tutto questo perché? Perché dopo aver vedute le prime films americane ci siamo messi ad imitarle, senza nemmeno dubitare che quello che ci veniva di fuori valeva meno di ciò che avevamo in casa. […] La risposta è una sola: perché abbiamo voluto camminare nelle orme degli altri, troppo piccole per il nostro piede. Se avessimo continuato a fare, e se rifaremo ancora, l’arte e l’industria secondo il nostro temperamento, secondo il genio della nostra razza, attingendo in noi tutte le forze e non disperdendole in imitazioni transalpine e transoceaniche, di Cabirie ne avremmo fatto e ne faremo, non una, ma cento.”