Napoli Comicon – C’è il pienone all’anteprima del nuovo film del regista Wes Anderson, la sua seconda pellicola realizzata in stop motion, dopo Fantastic Mr. Fox. Non un singolo posto è rimasto nell’Auditorium del Teatro Mediterraneo per L’Isola dei Cani, vicenda ambientata in un Giappone semi-distopico, temporalmente collocato a 20 anni da oggi. La sovrappolazione di cani, e la diffusione della febbre canina spingono il sindaco di Megasaky a bandire tutti i “cani cattivi” nell’isola dell’ Immondizia poco distante, che da allora diviene nota come l’Isola dei Cani.
Il piccolo pupillo del sindaco, Atari, sfiderà l’interdetto per ritrovare il suo cane Spot, il primo ad essere deportato sull’isola. Nel farlo verrà aiutato da un gruppo di altri cani, compreso il riluttante Chief, formando una strana coppia che alla fine del film salverà la giornata, oltre che in qualche modo l’esistenza dello stesso Chief.
E’ un Anderson vagamente più cupo, che strizza l’occhio al kabuki giapponese, ma che attraverso l’oriente descrive chiaramente l’occidente. Leggere tra le righe del film non è difficile, l’autore non si nasconde. Ma non per questa apparente facilità nel disinnescare il dispositivo metaforico, esso risulta meno divertente: I cani deportati non sono ovviamente i cani; i politici che accusano l’altro (in questo caso animale) per fini elettorali non sono certamente solo nipponici, e di certo non è al “sindaco” di Megasaky che qualcuno di noi pensa, alla fine del film…
L’Isola dei cani è un film intenso e strano. Cupo, come dicevo prima: l’ironia dell’autore qui si intreccia strettamente con un malessere, quasi un rancore. I colori vivaci ci sono, ma i toni sono molto più bassi, ombrosi, tipici di un futuro non promettente, nonostante il lieto fine. Lo houmor c’è, ma è particolarmente nero, con toni quasi splatter a volte che, se non inediti per Fantastic Mr. Fox (ricordate la coda tagliata?), qui sono molto più presenti e pervasivi. Particolarmente spiazzante l’incomunicabilità che come un asse percorre tutto il linguaggio del film. L’uso del giapponese da parte dei personaggi umani, per la maggior parte non tradotto né sottotitolato, permette all’autore di escludere la maggior parte del pubblico dalla comprensione dei dialoghi umani: lo spettatore può comprendere solamente i cani, che parlano in inglese; ma questi a loro volta non possono essere compresi dagli uomini nel film, in una strana e straniante inversione di alterità: gli altri qui siamo noi esseri umani? Non proprio. O meglio lo siamo, quando trattiamo il nostro altro come oggetto (come uno di quei mostruosi cani robot del film) e non come essere vivente, rifiutando di comprenderne lo specifico, ma umanissimo linguaggio…
L’Isola dei Cani e noi: perché guardare il nuovo film di Wes Anderson
Nato sul finire della lontana e oscura epoca umana conosciuta come “anni '80”, è riemerso, più o meno trionfante, dal labirinto universitario durante la seconda decade del terzo millennio, riportando una laurea in giurisprudenza come macabro trofeo.
Nerd incallito e irredento, fagocita libri e fumetti di ogni tipo, delirando di improbabili super-poteri da ben prima che Downey Junior rendesse popolare la faccenda sfrecciando ubriaco nei cieli di Hollywood...
Il suo primo atto ufficiale come membro del team di Senza Linea è stato inventare la parola “Nerdangolo”, rubrica di cui tutt'ora si occupa per la gioia di sé stesso.
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