Le ultime parole, rese in pubblico di Liliana Segre, sono state donate in diretta streaming a tutti, scuole e giovani in primis, nella mattinata di ieri alla Cittadella della Pace di Arezzo alla presenza delle autorità politiche e di giovani provenienti da più parti del mondo.
Sono trent’anni che la ormai senatrice a vita, nominata per il suo alto valore sociale dal Presidente Mattarella qualche anno fa, gira tra le scuole e tra i giovani, suoi interlocutori prediletti, per portare la testimonianza di quella che definisce “una parentesi incredibile della sua vita” nei lager nazisti per sensibilizzare e richiamare l’attenzione su temi ancora oggi troppo attuali del razzismo e delle svariate forme di discriminazione.
Nelle sue parole che raccontano, per una ultima volta, la storia della sua prigionia e della sua deportazione ad Auschwitz Birkenau, tutti i passaggi drammatici da lei vissuti offrono continui spunti di riflessione.
La narrazione della sua espulsione dalla scuola, con l’avvento delle leggi razziali, tocca il cuore perché lei cosi precisa e dettagliata ti fa entrare nella sua vita, in quella tavola seduta accanto al papà e ai nonni che di fronte alla sua domanda perché non dovesse più andare a scuola, cercando una spiegazione plausibile, comprensibile agli occhi e alla mente di una poco più che bambina, é costretta ad una scoperta dolorosa e a fare i conti con il suo essere ebrea, divenuto improvvisamente un elemento di diversità e come tale essere esclusa da tante cose ordinarie e anche dalla scuola.
Ed é così che comincia a conoscere la brutalità dell’essere umano che si manifesta nell’indifferenza, nella noncuranza, nel voltarsi dall’altro lato e non porgere aiuto o sostegno per paura, terrore e anche omertà, finanche a comprendere come le spietate logiche del nazismo e del fascismo erano disumane con tutti ma totalmente noncuranti e indifferenti ai bambini e alle loro vite.
Di qui la tentata fuga col padre verso la Svizzera laddove, una volta giunti con fatica e di nascosto alla frontiera, vengono derisi e respinti…come bugiardi e rinviati al confine italiano.
Ed è qui che arrestati da connazionali, sudditi degli ordini tedeschi, comincia la loro vita da prigionieri, schedati, deprivati e arrestati come delinquenti comuni con l’unica colpa di essere venuti al mondo, di essere “l’altro” da disprezzare, condannare, eliminare, perché inferiore rispetto a qualcuno o qualcosa.
La Segre, da donna di pace quale da sempre mostra di essere, ricorda quei momenti drammatici della repulsione, del respingimento, della mancata accoglienza, sente ancora ora il dolore della tragedia della condizione di rifiutata e respinta ai confini, in fuga dall’odio e dall’intolleranza e con un volo pindarico ci fa giungere ai giorni nostri, al dramma delle nostre coste prese d’assedio da affamati, disperati, soli e privi di tutto che si avventurano in viaggi della morte dove in tanti lasciano la loro vita nei nostri mari e lo fanno in nome di una speranza, di una voglia di un riscatto, del desiderio di vivere ed esistere, di quella voglia di vita di cui Luciana Segre parla con forza e commozione.
Eppure, quanti di loro respinti? Quanti di loro morti? Quanti di loro disperati? Ma noi dimentichiamo facilmente o rimuoviamo.
Dopo la prigionia durata 40 giorni a San Vittore, i tedeschi conducono la famiglia Segre, ormai ridotta a due soli componenti e altri 600 deportati, al tremendo famigerato binario 21 della stazione di Milano che dopo una settimana di un viaggio estenuante nei vagoni merci, in compagnia di disperati appollaiati uno contro l’altro in piedi senza acqua né cibo, giungono al binario morto di Auschwitz e lì comincia la vera alienazione, l’umiliazione, la deprivazione, la spogliazione di tutto, non solo quello che ti apparteneva come oggetto, una fotografia, una collana, un libro, ma tutti gli affetti interrotti con la violenza di una inspiegabile separazione e di un addio mai pronunciato attraverso un ultimo abbraccio e una dolce stretta di mano.
Siamo a gennaio 1944.
La Segre non vedrà mai più suo padre che morirà ad aprile.
Viene scelta per lavorare e vive come prigioniera schiava al servizio del perfetto sistema disumanizzante dei lager tedeschi laddove terrore, brutalità, abbrutimento, odio, egoismo, indifferenza divengono la normalità e rendono questi disgraziati scheletriti e irriconoscibili funzionali al sistema più spietato e ben congetturato che una mente umana potesse immaginare di realizzare.
Il racconto della Segre é in più occasioni toccante, commovente e straziante per la disinvoltura della sua grande umanità ed umiltà.
Lei si rivela a tutti senza veli, senza falsi moralismi, senza coprire quelli che definisce i suoi grandi errori e i suoi sensi di colpa per non aver prestato aiuto, per non aver provato affetto, per essersi chiusa in una solitudine di difesa da altre perdite, concentrata sulle poche forze che aveva, distratta dalla vita del campo e del camino sempre fumante con la via di fuga del lavoro, per quanto logorante e faticoso e, fors’anche, sulla voglia di tornare alla vita.
Giudica severamente la se stessa del lager per aver acconsentito alla logica dell’abbrutimento e dell’annientamento quando nomina Mengele, il terribile giudice infernale delle selezioni, il cui solo nome ci fa tremare ancora oggi eppure lei lo ha avuto vis a vis e ha subito la sua decisione di regalarle ancora la vita con un semplice brutale cenno del capo: a gas o al campo!
La descrizione delle kapos e delle SS cosi crudeli e spietate, pronte ad uccidere per un nonnulla insignificante o a colpirti con nerbate violente se non scaraventarti cani assassini addestrati all’odio, simbolo perfetto del loro odio cieco, é scioccante…si presentavano tronfi della loro potenza, onnipotenza e superiorità!
Superiori in cosa? Si chiede la Segre…superiore di razza? Non certo della razza umana perché tutti coloro che lavoravano con devozione in base ad un credo folle per il Reich non erano umani mai!
Li paragona ai bulli dei nostri tempi che uniti in branco riescono a colpire e a far male ma soli chiedono aiuto e temono vendette…li paragona ai violenti bulli assassini di Willy che hanno ucciso perché diverso, perché rappresentava “altro” da loro e ora in carcere, accerchiati e minacciati dagli altri detenuti, chiedono l’isolamento per non essere pestati…legge del contrappasso!
Nel gennaio 1945, dopo un anno da deportata, l’approssimarsi delle truppe russe innesca la cd. Marcia della morte che costringe tutti ormai sfiniti, affamati e ridotti allo stremo, a percorrere km e km per raggiungere i campi di concentramento più distanti dagli assalti degli Alleati.
La Segre sul racconto della lunga marcia non lesina sulla disperazione della stanchezza e sullo sfinimento della fame che diviene pensiero fisso…ossessione senza tregua…e si lascia andare ad una testimonianza mai resa prima in pubblico sulla lotta alla fame ricorrendo a “brucare nei letamai” e sfamarsi di animali morti nel percorso per recuperare energie e, gamba dopo gamba, giunse all’ultimo campo prima della liberazione e della fine della guerra.
Sul valore del cibo e la sofferenza della fame vissuta da milioni di persone del mondo, ancora oggi, la senatrice tuona duro, soprattutto richiamando i giovani, forti, molto forti, per combattere gli sprechi, per apprezzare il piatto a tavola e la fortuna di poter vivere una vita libera appieno.
I giovani sono quelli a cui parla Luciana, a cui si rivolge continuamente, interlocutori che sente vicini e affini e da cui sa di poter ricavare cose preziose perché si deve puntare sulla loro ricchezza e sulle loro risorse infinite.
No odio no razzismo no violenza no discriminazione no intolleranza.
Questo il messaggio di Liliana.
I suoi occhi, così penetranti, a tratti si fermavano, si assentavano, divagavano e forse ritornava lì in quei ricordi, in quei luoghi, in quell’orrore che ci ha fatto vedere e conoscere, pur nella difficoltà di comprendere la follia di un regime assoluto, la sofferenza generata dall’odio e dall’intolleranza consegnandoci il testimone di portare avanti il suo messaggio e l’esempio di una vita dedita alla lotta al razzismo, con una testimonianza che resta fondamentale avversione alle discriminazioni di qualsivoglia specie, sempre insidiose tra noi, insistenti, propagandistiche e perciò ancora più pericolose perché in grado di addomesticare le masse e spingerle a ricommettere gli errori del passato .
Al momento della liberazione, lei é con il suo aguzzino, il suo persecutore, oggetto di incubi e terrore, che denudato delle sue vesti naziste, si ritrova in mutande al suo cospetto nel tentativo di indossare abiti civili e fuggire alla cattura dei liberatori sempre più prossimi…ebbene…lì vicino a lei, abbandonata la sua pistola che tante vite aveva finito spietatamente…
Una piccola esitazione…cedere alla vendetta e all’odio e spararlo…degna fine…epilogo giusto di tanto dolore…ma vendetta e odio non sono sentimenti che le appartengono…in quell’istante di indecisione, lei ha deciso che senso dare alla sua vita e che direzione prendere…e di certo non avrebbe potuto mai e poi mai diventare uguale ai suoi stessi persecutori e aguzzini, lasciandosi andare alla molla della vendetta per cui lasciò a terra la pistola e decise in quel momento che persona voleva essere e che persona sarebbe diventata e sarebbe stata nella sua esistenza.
Una donna di libertà e di pace.